mercoledì 28 dicembre 2016

Gin tonic a occhi chiusi – Contenuto extra – Il controverso dicembre dei Misiano

 

Riguardo alla fatica della battaglia, ogni tanto Paolo spera che tutto finisca, e che finisca presto. È quando si sente troppo agitato e mescolato dalla realtà. In questi momenti sente un disperato bisogno di conforto. 
“Gli anacardi mi innervosiscono”, ha detto Gianni. 
“Niente stuzzichini impossibili”, ha risposto Paolo con frivolezza molesta e inadatta al momento. Ovvio che la frase non significhi niente. 
Sono andati a prendere l’aperitivo in un locale con aspirazioni internazionali affacciato sul Mattatoio. Paolo ha un tono compassionevole perché Gianni è solo come un cane. Ma Gianni lo tratta con una certa sufficienza. Ha sempre una nota da fratello maggiore. Per una forma di implicita compensazione, Paolo avrebbe voluto parlare un po’ di politica, fare il punto sulla delicata situazione. Nonostante i progressi dell’ultimo anno e mezzo, conserva la fragilità del deputato alla prima legislatura. Gianni ha glissato. Non gli piace dare soddisfazione al fratello, quando il fratello ne ha bisogno. 
E poi… e poi, c'è tutta una recriminazione collettiva in atto per gli ultimi avvenimenti. Governo caduto, gioventù al potere bruciata, crisi di classi dirigenti e pure di popolo, autolesionismo. Molto autolesionismo da parte di tutti. È questo lo sfondo. Nel dettaglio prima del voto si è discusso di cose così così: se siano lecite e/o utili le promesse elettorali, se strumentalmente si possa cambiare idea in politica, se i politici debbano – e quanto – essere simpatici, se le clientele siano deprecabili. Gianni non intende parlare di queste cose. Ranieri ne avrebbe voglia, perché gli piace quando Gianni esprime un punto di vista e gli dà la linea. Ma niente. A dire la verità questa suggestione delle clientele come modalità politica deprecabile innervosisce alquanto Paolo. 
“E il consenso?”, dice lui. Gianni tace. 


Invece quel grandissimo testa di cazzo di Ranieri lo ha provocato per due mesi, sul tema consenso. 
“L'assessore senza peccato scagli la prima pietra”, gli ha detto tutto il tempo. 
“Questa è una banalità. Come mai non dici mai queste sciocchezze quando c'è papà?”. 
La verità è che ai suoi occhi Ranieri ha due difetti insuperabili. È un inutile fratello terzogenito; è una nullità che lavora nel giornalismo. 
“Oddio – gli risponde Ranieri – stai regredendo... se non parlo davanti a papà è per non mettere te in imbarazzo”. 
“Me in imbarazzo? Infantile”, gli ha replicato Paolo, stupendosene. 
Infantile, lo diceva sempre sua madre. Strano come sia ogni volta sorpreso quando sua madre rinvenga da qualche parte, si manifesti, rispunti e in qualche modo rompa i coglioni. 

Ciò detto, la sera del voto referendario per fare compagnia a Edoardo si sono tutti ritrovati davanti alla tv a seguire i risultati. Tutti tranne Gianni. Ha organizzato Patrizia, in quanto titolare, insieme a Paolo dell’unica legittima unità famigliare sopravvissuta alla tempesta globale affettiva e luttuosa che ha investito i Misiano. Patrizia ha pensato che con suo cognato Gianni sarebbe stato più noioso che con suo cognato Ranieri e fidanzata Anna, ex amante di Gianni e causa della di lui separazione. Ineccepibile, in effetti. Come sempre clima calcistico applicato alla competizione politica, giacché le due cose si assomigliano. E infatti uno dei vincitori ha subito rivendicato la perfezione di questa domenica, avendo la sua squadra vinto anche il derby. Edoardo ha storto il naso, perché detesta le contaminazioni. È un eroe della serietà. 
Su Edoardo è necessaria una piccola postilla. Sopraffatto sulle prime, è sopravvissuto alla vedovanza grazie proprio alle cure di Patrizia. Elsa è la titolare di un vuoto colossale, d’accordo. Però sua nuora accudisce, tempera, smussa, dirige, compensa, riempie. Ranieri ha notato che in un angolo del salotto è spuntato dopo molti anni un oggetto nuovo. Un micro tavolino degli anni ’50, su cui è stato sistemato un portacenere a scatola e un telecomando. È la prima cosa nuova comparsa in casa dalla morte di sua madre. Non le sarebbe piaciuto, sospetta. 
“È nuovo?”, ha chiesto – stronzetto – come se non lo sapesse, rivolgendosi a suo padre. 
“Sì – ha risposto Patrizia anticipando il suocero – finalmente il telecomando ha il suo posto”. 
Anna ha guardato l’oggetto con una specie di curiosità, ma senza convinzione. E Patrizia ha ricambiato lo sguardo, fissando le scarpe di Anna. Non si piaceranno mai. 

Stasera devono trasferire le loro diffidenze personali in un campo laterale. C’è il voto referendario. A dieci minuti dall'inizio dello spettacolo – cioè l'annuncio dei primi risultati – i Misiano scesi in campo sono ancora molto prudenti. Non si fidano delle loro rispettive sensazioni e non fanno pronostici. Tranne Patrizia. 
“Vincerò io, vedrete...”, dice manifestando buon umore e fiducia nella sua posizione. 
Non sa bene che cosa abbiano votato gli altri, ma spera che in maggioranza abbiano scelto come lei. E spera anche di aver votato diversamente da Anna. Le piacerebbe farle una battuta acida e rinfacciarle la sconfitta. Confida molto negli exit poll. 
In realtà, le scelte del gruppo – nonostante il rigido statuto binario di un referendum (sì-no) – sono parecchio variegate nelle motivazioni e nelle sfumature. Pertanto il quadro del voto Misiano è frastagliato e complessivamente contraddittorio. Eccolo. 

Edoardo e Gianni hanno votato sí. In nome della stabilità. Per Edoardo la stabilità è tutto. È ordine, superiorità morale, senso profondo dell’essere èlite, condivisione, compartecipazione al rischio: da uno dei nostri, posso accettare di tutto, anche la sconfitta e l’esilio morale. Per Edoardo non sempre è possibile un esercizio totale della nostra libertà di opinione. Ci sono momenti in cui è utile sacrificare il proprio sé. Questo è uno di quei momenti, pensa. Gianni ritiene di aver appreso la lezione paterna, con dei distinguo, ma marginali. 
Paolo, invece, ci ha pensato a lungo su come posizionarsi. La sua generazione non è strutturata come la precedente e lui è meno intelligente di suo fratello. E poi, lui stesso si sente in partita. Così, ha scelto una linea di fronda. Un sì ufficiale, ma senza partecipazione. Al dunque spera tanto che vinca il no. Ha una vocazione per l’omicidio politico, inquantocché è l’unica cosa che davvero lo emozioni. Distruggere il potere del momento per scommettere su un nuovo assetto. È il gusto del grande gioco, la politica vissuta da dentro, ammazzare il re per farne un altro, il piacere della confusione, ricominciare, il movimento, la simulazione e la dissimulazione (indifferentemente), sfruttare l’occasione, lucrare sull’attimo, tirare – rispettosamente – i dadi. In famiglia dice e non dice, è obliquo, tergiversa. Ma tutti hanno capito. Gianni sospetta che coltivi la speranza di fare il sottosegretario. Si illude, pensa. 
Quanto a Ranieri – “questo prototipo di paraculismo”, ha detto Paolo – non si è espresso per tutto il tempo della campagna. Ha usato un argomento attendista: la propaganda del sì mi spinge verso il no e viceversa. In realtà gli è sufficiente non esprimersi. Ma il martedì, a risultato acquisito, ha scritto una noiosa editorialessa come se lui l'esito l'avesse largamente previsto. Testa di cazzo, hanno pensato all’unisono Gianni e Paolo. L'aveva già fatto con Trump. 
Veniamo alle donne. La detestata Nucci ovviamente ha votato no. Stato, Costituzione, intangibilità delle regole. (Ha giurato a se stessa che sulla sua scelta non abbia pesato il fatto che il suo ex marito fosse per il sì. Anche quando stavano insieme lei e Gianni sono sempre stati molto riguardosi delle rispettive idee. Non c’è ragione per radicalizzare le differenze adesso che non stanno più insieme. Ciò detto lei continua a odiarlo). 
Patrizia invece ha scelto la linea più sentimentale. Ha pensato che Elsa avrebbe votato sí e per postuma complicità con la suocera, ha votato con un convincimento che ha molto innervosito suo marito. 
Anna, infine. Ha fatto la scelta più pazza. Ha scelto di decidere entrando nel merito. Il merito… Curiosità: quando Edoardo lo ha saputo ha sorriso sornione. É un sorriso di fair play, di galanteria. In realtà è una smorfia di sofferenza. Entrare nel merito è un lusso che non ci si può permettere, ritiene. Quello di Anna è sostanziale autolesionismo. Niente di più stupido. È tutto in bilico, non è conveniente rischiare l’osso del collo per il gusto di entrare nel merito. Edoardo pensa che la madre di Anna non ha mai avuto alcuna percezione dell’azzardo insito nei cambiamenti troppo bruschi: “Ha sempre pensato che non esisteva niente di brusco per il suo patrimonio… E invece, forse, non è più così…”. Anna non ha alcuna percezione di ciò e in generale non ha percezioni. Come presa da un improvviso tic, sente allargarsi in un sorriso la piega di soddisfazione con cui accoglie le notizie della tv. Ma fa dei grandi sforzi per controllarsi. Ranieri la guarda, contento che lei ci sia. Il resto non gli interessa. 
Alla fine della serata, nessuno ha fatto dei commenti antipatici sulle controparti. Patrizia però è abbacchiata per la sconfitta e non ha potuto dire niente ad Anna, vittoriosa ma signorile. Sono andati tutti a dormire prima dell’una. Dopotutto, pensano che non succederà niente di grave. Almeno sul breve periodo. Il medio è compromesso. Il lungo è pura fantasia. Solo Edoardo ha continuato a riflettere sull’ingenuità di Anna, se in quell’accanimento sul merito ci sia un avvertimento, un significato, un sintomo generale. Non lo sa. “Il merito…”, ha sospirato. 


Paolo non ha raccontato a Gianni della serata referendaria da Edoardo. E neanche Edoardo ha detto niente a Gianni. Paolo non ha ottenuto niente dalla sconfitta referendaria e non ha molte idee su come andranno le cose nei prossimi mesi. In fondo la prossima scadenza sono le Feste. Natale passerà in qualche modo, con la famiglia tenuta insieme da un astuto compromesso che Patrizia ha già in mente. A Capodanno, invece, tutti liberi. Di fare che cosa è tutto da decidere però. “Che palle tutta questa libertà”, pensa Paolo. In fondo anche adesso, continua ad avere nostalgia di quando sua madre lo metteva in punizione.

venerdì 19 luglio 2013

Breve ritratto collettivo dei Ligresti (con il contributo decisivo di una galleria di immagini Google e della pagina Facebook di Jonella, che rende quasi superflue le informazioni dalle amiche e la mediazione di chi scrive).

Strano il destino di una famiglia arrestata in blocco. O per la vita che aveva condotto prima, o per il modo di indagarla dopo. Adesso sono i Ligrestos. Fino a due anni fa, erano stati una famiglia ricca, già sufficientemente discussa e abbastanza potente con un classico percorso geografico&sociale in una sola generazione: Salvatore è nato a Paternò, rapporti famigliari con i Virgillitto (i protettori di Raffaele Ursini di Liquigas) e con i La Russa. Il padre di Ignazio La Russa era stato amico e mentore di Salvatore. Nella generazione successiva, Ignazio aveva officiato la cerimonia civile nel giorno del matrimonio a Taormina di Giulia. Giulia Ligresti è la prova di un transito generazionale. Suo padre ostensivamente meridionale, a partire dal dettaglio della cravatte sotto la cintura, lei bionda, occhi azzurri, minuta, composta, capelli raccolti dietro le orecchie, sorrisi nel complesso molto misurati in una galleria di immagini Google che descrivono istantaneamente la sua dimensione pubblica. Il fisico sportivo, la vela, e – al posto di quelle cravatte – un marchio della moda, Gilli, fondato, e poi liquidato, per realizzare borse da lei stessa disegnate che non incontrarono un grande successo, ma che testimoniavano un certo interesse per lo stile.   
Gli osservatori neutrali descrivono questa transizione della bionda Giulia come una legittima aspirazione sociale: frequentare il mondo rivisitato delle case del Cappuccio, cioè i luoghi di quella che era stata la Milano borghese molto ricca e chiusa all’esterno, adesso che il Cappuccio e quelle case non sono più presidiati soltanto da quella borghesia.
Stampa meno favorevole per il figlio maschio Paolo, con interessi immobiliari in Svizzera, passione per le macchine sportive e per il Milan, il quale negli ultimi tempi si dichiarava più combattivo di suo padre, e fino all’ultimo diceva in giro che non si sarebbe fatto strappare il gruppo assicurativo dalle mani. Popolarità relativa anche per Jonella, la maggiore, la ragazza appassionata di equitazione. Quattro cavalli costati 6 milioni di euro nel 2008 a una società di famiglia. In un elenco di richieste avanzato a Mediobanca per trattare una buonuscita da Fonsai c’era anche la disponibilità di un albergo per le vacanze. Nel 2007, Jonella Ligresti fu protagonista di un caso molto bizzarro: una laurea honoris causa conferita dall’Università di Torino, revocata sei ore dopo dal ministro dell’Università Fabio Mussi per insussistenza dei requisiti. Certo, non fu colpa della laurenda, ma dell’ateneo che non tenne conto del preventivo parere contrario del ministro, il quale aveva cominciato una battaglia contro quei riconoscimenti.
Le amiche, invece, raccontano le ragazze Ligresti in un altro modo. Molti cavalli, ovviamente, e molto sport, ma anche molti aiuti per le Ong. Senz’altro abituate al benessere, forse un po’ viziate dai voli privati, ma dopotutto ok. “È chiaro che hanno sempre fatto solo e soltanto quello che diceva il padre”, è la tesi di chi le conosce. Come dire che dietro l’esibizione della managerialità di seconda generazione, c’era innanzitutto un genitore molto protettivo. Si vedrà nei prossimi giorni.
Ma la cosa interessante della storia dei Ligresti in queste ore (segno dei tempi moderni, e di come cambia il modo di raccontare le vite degli altri attraverso la mediazione di conoscenti, amici e avversari) è il fatto che una parte di questa storia – compresi i messaggi di sostegno e solidarietà degli amici (“coraggio non è da te cedere”, “Jo… Testa alta!!! Ti voglio bene!” – è su Facebook, un diario pubblico di quella che un tempo era la vita privata. E fa molta impressione nel giorno di provvedimento di restrizione, vedere passeggiate su dune desertiche (un post di Giulia: “in Libia una delle mie corse più belle!”), figli, alberi di natale, cavalli, compleanni, cotillon, massime (sul profilo di Jonella: “lascia che tutti sappiano che oggi sei più forte di ieri”). Sic transit gloria Facebook.

Marco Ferrante

Da Il Messaggero del 18 luglio 

giovedì 11 luglio 2013

Più che un Aventino è un Quarantotto, anzi un Ambaradan

Il Messaggero


Per un paio di millenni l’Aventino – come fatto politico – è stata una cosa seria. La Secessio plebis era la tecnica di lotta del colle plebeo Aventino contro il dirimpettaio colle patrizio Palatino. Una specie di serrata e di abbandono temporaneo della città cui cercò di trovare una soluzione Menenio Agrippa (utilità delle scuole medie) con la metafora del corpo umano per spiegare il funzionamento di una società. Sull’Aventino – come rifugio di parte plebea – cercò scampo dalle truppe consolari Caio Gracco, figlio di Cornelia, che poi morì sul Gianicolo.
L’Aventino, come luogo mitico della protesta, fu riesumato all’inizio del ventennio fascista nei giorni dell’omicidio Matteotti. L’opposizione, nonostante il parere contrario di Antonio Gramsci, abbandona l’aula e da lì inizia un processo che porterà al regime. L’Aventino diventa nell’immaginario il luogo di un errore politico, ma anche di una testimonianza anti-tirannica.
La questione aventiniana – come antefatto di un successivo luogo comune – tornò ad affacciarsi alla vita pubblica settant’anni dopo, alla fine della prima repubblica. Quando il leader dei radicali Marco Pannella lanciò l’iniziativa degli autoconvocati: 230 deputati, alcuni colpiti dagli avvisi di garanzia, si autoconvocano nel tentativo di salvare la giovane legislatura travolta dalla tempesta tangentopolista. Fu un Aventino di fatto. Era la primavera del 1993. Non dette i risultati sperati, e cominciò la seconda repubblica.
Due anni dopo si registrò un nuovo caso: una specie di arzigogolo fusionista in cui nei richiami dei protagonisti convissero l’Aventino e la Pallacorda, citazione pre-rivoluzionaria (francese) a cura del parlamentare di Forza Italia Pietro Di Muccio. Serviva per spiegare il senso di un’assemblea congiunta dei parlamentari del Polo per protestare contro il governo Dini. (Al capo di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini non piacque, invece, il riferimento all’Aventino che altri utilizzarono).
Dopodichè, negli anni, è stato tutto un ricorso formalistico all’espressione secessionista. Ogni occasione è stata buona per minacciare forme di aventinismo, come forma retorica, giornalistica, sempre un po’ vittimistica. Umberto Bossi se ne appropria nel 1996 quando ancora punta all’indipendenza della Padania. Successivamente, qualcuno schekera Aventino e Non expedit per commentare una dichiarazione del vescovo Alessandro Maggiolini, il quale, nel 1998 suggerisce ai deputati del Partito popolare di lasciare il governo di centro sinistra in difesa dei valori cattolici. Per tutti gli anni 2000 destra e sinistra quando sono all’opposizione prima o poi minacciano un Aventino. È un riflesso condizionato, una prova sottintesa del carattere frontista di un sistema bipolare che non ha imparato a dialogare, e dove l’opposizione si sente sempre alle strette.
L’ultima volta che la questione aveva preso piede era stato nella primavera del 2011. Volevano fare l’Aventino i deputati pidini che su proposta di Rosy Bindi spingevano per un atto eclatante di protesta contro la cosiddetta prescrizione breve. Bindi dette un’intervista a Repubblica per sostenere la tesi del grande gesto. Poi non se ne fece niente, la maggioranza si incartò e la prescrizione breve non passò. Con grande soddisfazione politica degli anti-aventinisti, memori dell’insegnamento di Gramsci.
L’anno dopo nel Pd ci fu un rigurgito aventiniano in occasione del dibattito al senato sulle riforme costituzionali. E di Aventino implicito in un certo senso si è parlato anche in occasione del congelamento dei voti M5S deciso da Bepe Grillo all’indomani delle elezioni generali di febbraio scorso non solo per la composizione del governo e per il Quirinale, ma anche per le presidenze di Camera e Senato. Occasione in cui erano stati quelli del Pdl a minacciare l’Aventino perché il centrosinistra aveva votato presidenti non condivisi dall’opposizione.
Così, Aventino è ormai un luogo comune. E siccome, inoltre, di solito non dà risultati – se non cattivi – nel nostro immaginario il suo significato rischia di trasformarsi sempre di più in altre espressioni figurate. Perché nel lessico politico italiano l’Aventino è sempre più simile a un Quarantotto (nel senso di una grande confusione) a una Caporetto (sconfitta evitabile) o – peggio del peggio – a un’Ambaradan (sconfitta e grande confusione). 

Marco Ferrante